Capita spesso che le band meno conosciute debbano scendere a compromessi per suonare dal vivo, intendo farlo gratis o pagare…cosa ne pensate?
Boom. Domanda infinita. Domanda semplice, quindi di complessa risposta. Astraendoci dal contesto socio/economico la risposta sarebbe che pagare per suonare è una tragedia. Punto. Ci dovrebbe essere un minimo salariale per singolo musicista a concerto eseguito da cui iniziare a ragionare. Ma scendendo nella realtà odierna ci sono dei dati di fatto con cui confrontarsi imprescindibili, che fanno diventare questa affermazione relativa. Sono, anche queste, cose molto delicate di cui parlare. Non voglio toccare l’argomento di chi “meriti” di essere pagato e chi no perché mi metterei dentro un labirinto senza via d’uscita. Per cui non voglio parlare di “qualità” di chi suona o della musica che viene suonata. Ma non perché questo sia di seconda importanza, per me è centrale, ma perché il rischio di essere travisati è troppo alto, scrivendo. E anche perché in fondo la problematica per cui si è arrivati a dover pagare per suonare non è tanto la qualità ma la quantità. Mi spiego meglio. È un dato di fatto che in questi ultimi decenni con l’avvento delle tecnologie digitali e di internet (tantissime informazioni potenzialmente raggiungibili in un secondo, in modo totalmente impensabile solo pochi anni fa) il numero di fruitori ma soprattutto esecutori (!) è aumentato in maniera imbarazzante. Tutti oggi possono imparare i rudimenti di suonare uno strumento facilmente, online, e comprandosi a basso costo strumenti dignitosi. Tutti oggi possono, a costi ridotti, registrare il proprio disco dignitosamente, non dovendo per forza essere profondi conoscitori del proprio strumento. Tutti oggi possono distribuire la propria musica online, farsi un sito, raggiungere gente con i social. Tutti oggi possono esserci. Essere presenti con prodotti finiti. D’altro canto oggi tutti possono aprire un’etichetta, un’agenzia di promozione, di booking, di distribuzione… Tutti fanno tutto.
Il punto di equilibrio si è rovesciato rispetto a com’era una volta.
Una volta c’erano le case discografiche a vari livelli d’importanza con i soldi, c’erano dei gruppi che suonavano. Le case discografiche dovevano trovare i gruppi di maggior talento per poi proporli, quindi produrli, promuoverli e distribuirli. Per cui c’erano degli scout, che avevano vero potere, che cercavano la qualità, il talento, l’innovazione, facevano a gara per scovare il nuovo, il futuro e lanciarlo. C’erano due o tre canali di comunicazione e tutti seguivano quelli (radio, tv, giornali).
Oggi ci sono i gruppi, tanti, tantissimi, a valanghe, talmente tanti (ma tanti) che è come se non ci fosse più nessuno. Gli scout, nessuno sa se esistano o meno (sono figure mitologiche ormai) non saprebbero dove guardare e quelli che ci sono guardano il numero di like che hai sulla tua pagina facebook e il numero di visualizzazioni su youtube. La tua musica generalmente no, poiché il problema è che i soldi li devono guadagnare per vivere e non investire su un gruppo valido. Il mercato discografico, quindi le case discografiche, sono crollate a pezzi sotto i colpi battenti della vendita digitale e della pirateria. I canali di comunicazione sono implosi dinnanzi a internet (quindi i social) che è stato come aprire la porta ad un altro intero mondo sconosciuto che ha talmente tante vie e canali d’informazione dentro se stesso che è quasi come se non ce ne sia più nessuno. Senza considerare che per i locali fare musica tra siae (almeno in Italia) e altre cose, far fare i concerti è diventata una spesa e basta.
Lo scenario è: una miriade impensabile di gruppi, nessun potere economico delle case discografiche, nuovi, potenti e non realmente gestibili canali d’informazione. I responsabili della qualità dei gruppi di “ieri” erano i team di esperti delle case discografiche, che valutavano le band da lanciare relativamente alle potenzialità che ci vedevano dentro e la linea che voleva seguire la casa discografica. Le band che non erano “scelte”, semplicemente non c’erano, non c’era modo di conoscerle e nulla s’intasava. Le band venivano scelte “giovani” e alle band veniva data una strada da poter percorrere professionalmente e su cui puntare al 100% delle proprie forze: la propria musica. Nel ’62 quando ai The Beatles fu prospettata l’inizio della loro carriera e quando furono seriamente selezionati e economicamente sostenuti in tutto, Paul McCartney aveva 20 anni cazzo! A un gruppo di ventenni di buon talento hai dato la possibilità di dedicarsi al 100% della loro vita nella cosa che amano fare! Investivano sul talento per coltivarlo almeno altri dieci anni prima di lasciarlo andare! I Pink Floyd nel ’67 buttavano fuori un disco che si piazzava sesto nelle classifiche inglesi di vendita e il gruppo aveva queste età: Gilmour 21 anni, Waters 24 anni, Barrett 21 anni, Mason 23 anni, Wright 24 anni e li hanno messi nella condizione perfetta per poter continuare ad esprimersi al 110% del loro tempo e delle loro forze! Kurt Cobain, quando i Nirvana ancora poco conosciuti, riuscirono ad ottenere un contratto con una major nel 1990, aveva 23 anni. Produssero nel 1991 Nevermind, completamente spesati e pagati per farlo, con il supporto della major e pochi mesi dopo vendevano 400.000 copie scalzando Michael Jackson dal primo posto in classifica.
Ciò che voglio dire è che oggi le case discografiche non possono più investire tempo e denaro su artisti in cui credono e in cui vedono talento per cui cercano chi già ha i soldi per investire su se stesso e ha già un numero elevato di fan. I gruppi lo hanno capito e tutti indistintamente corrono a comprarsi i concerti perché è ancora, nonostante tutto, l’unico vero modo di farsi vedere e sentire, le agenzie di booking ci si sono buttate dentro con il cuore pieno di gioia! Propongono pacchetti da 10.000/15.000 euro per fare un tour di un mese con un gruppo famoso dove i gruppi piccoli e poco conosciuti pagano per firmare un contratto in bianco, in pratica, perché di solito non si ha nemmeno la certezza che poi si suonerà davvero tutti i concerti prestabiliti. Se il tour bus è in ritardo il gruppo di apertura, che di solito è il primo di quattro di una serata (quindi suonerà mezz’oretta mentre fuori si vendono i biglietti per il concerto) non suonerà. Se vorrà vendere cd dovranno avere un prezzo più alto di quello del gruppo principale (vi immaginate una persona che compra il disco dei Nefesh a 30 euro e quello dei Dream Theatre nello stesso tavolino a 20?). Ma a tutti va bene che le band paghino per suonare, nessuno muove un dito per opporsi, anzi! E’ un business dove tutti ormai vogliono entrare, tutti si reinventano, spesso improvvisandosi, organizzatori di concerti a pagamento. I festival chiedono soldi per farti suonare, le agenzia chiedono soldi per farti suonare, le case discografiche chiedono soldi per farti stampare un disco e le band pagano, perché non vedono un’altra strada. Il dramma è che sembra non esserci un’altra strada. Infondo questo discorso va bene anche alla maggior parte delle band, perché così hanno un modo chiaro e certo di poter fare i concerti. Quelli che hanno soldi. Oggi la differenza la fanno i soldi: se hai i soldi diventi famoso in un modo o nell’altro, se non hai i soldi devi avere qualche divinità che tiene a te, e sembra che quelle del metal non siano più così tanto potenti, purtroppo. Di certo meno potenti dei soldi…
Il punto di equilibrio si è rovesciato rispetto a com’era una volta.
Una volta c’erano le case discografiche a vari livelli d’importanza con i soldi, c’erano dei gruppi che suonavano. Le case discografiche dovevano trovare i gruppi di maggior talento per poi proporli, quindi produrli, promuoverli e distribuirli. Per cui c’erano degli scout, che avevano vero potere, che cercavano la qualità, il talento, l’innovazione, facevano a gara per scovare il nuovo, il futuro e lanciarlo. C’erano due o tre canali di comunicazione e tutti seguivano quelli (radio, tv, giornali).
Oggi ci sono i gruppi, tanti, tantissimi, a valanghe, talmente tanti (ma tanti) che è come se non ci fosse più nessuno. Gli scout, nessuno sa se esistano o meno (sono figure mitologiche ormai) non saprebbero dove guardare e quelli che ci sono guardano il numero di like che hai sulla tua pagina facebook e il numero di visualizzazioni su youtube. La tua musica generalmente no, poiché il problema è che i soldi li devono guadagnare per vivere e non investire su un gruppo valido. Il mercato discografico, quindi le case discografiche, sono crollate a pezzi sotto i colpi battenti della vendita digitale e della pirateria. I canali di comunicazione sono implosi dinnanzi a internet (quindi i social) che è stato come aprire la porta ad un altro intero mondo sconosciuto che ha talmente tante vie e canali d’informazione dentro se stesso che è quasi come se non ce ne sia più nessuno. Senza considerare che per i locali fare musica tra siae (almeno in Italia) e altre cose, far fare i concerti è diventata una spesa e basta.
Lo scenario è: una miriade impensabile di gruppi, nessun potere economico delle case discografiche, nuovi, potenti e non realmente gestibili canali d’informazione. I responsabili della qualità dei gruppi di “ieri” erano i team di esperti delle case discografiche, che valutavano le band da lanciare relativamente alle potenzialità che ci vedevano dentro e la linea che voleva seguire la casa discografica. Le band che non erano “scelte”, semplicemente non c’erano, non c’era modo di conoscerle e nulla s’intasava. Le band venivano scelte “giovani” e alle band veniva data una strada da poter percorrere professionalmente e su cui puntare al 100% delle proprie forze: la propria musica. Nel ’62 quando ai The Beatles fu prospettata l’inizio della loro carriera e quando furono seriamente selezionati e economicamente sostenuti in tutto, Paul McCartney aveva 20 anni cazzo! A un gruppo di ventenni di buon talento hai dato la possibilità di dedicarsi al 100% della loro vita nella cosa che amano fare! Investivano sul talento per coltivarlo almeno altri dieci anni prima di lasciarlo andare! I Pink Floyd nel ’67 buttavano fuori un disco che si piazzava sesto nelle classifiche inglesi di vendita e il gruppo aveva queste età: Gilmour 21 anni, Waters 24 anni, Barrett 21 anni, Mason 23 anni, Wright 24 anni e li hanno messi nella condizione perfetta per poter continuare ad esprimersi al 110% del loro tempo e delle loro forze! Kurt Cobain, quando i Nirvana ancora poco conosciuti, riuscirono ad ottenere un contratto con una major nel 1990, aveva 23 anni. Produssero nel 1991 Nevermind, completamente spesati e pagati per farlo, con il supporto della major e pochi mesi dopo vendevano 400.000 copie scalzando Michael Jackson dal primo posto in classifica.
Ciò che voglio dire è che oggi le case discografiche non possono più investire tempo e denaro su artisti in cui credono e in cui vedono talento per cui cercano chi già ha i soldi per investire su se stesso e ha già un numero elevato di fan. I gruppi lo hanno capito e tutti indistintamente corrono a comprarsi i concerti perché è ancora, nonostante tutto, l’unico vero modo di farsi vedere e sentire, le agenzie di booking ci si sono buttate dentro con il cuore pieno di gioia! Propongono pacchetti da 10.000/15.000 euro per fare un tour di un mese con un gruppo famoso dove i gruppi piccoli e poco conosciuti pagano per firmare un contratto in bianco, in pratica, perché di solito non si ha nemmeno la certezza che poi si suonerà davvero tutti i concerti prestabiliti. Se il tour bus è in ritardo il gruppo di apertura, che di solito è il primo di quattro di una serata (quindi suonerà mezz’oretta mentre fuori si vendono i biglietti per il concerto) non suonerà. Se vorrà vendere cd dovranno avere un prezzo più alto di quello del gruppo principale (vi immaginate una persona che compra il disco dei Nefesh a 30 euro e quello dei Dream Theatre nello stesso tavolino a 20?). Ma a tutti va bene che le band paghino per suonare, nessuno muove un dito per opporsi, anzi! E’ un business dove tutti ormai vogliono entrare, tutti si reinventano, spesso improvvisandosi, organizzatori di concerti a pagamento. I festival chiedono soldi per farti suonare, le agenzia chiedono soldi per farti suonare, le case discografiche chiedono soldi per farti stampare un disco e le band pagano, perché non vedono un’altra strada. Il dramma è che sembra non esserci un’altra strada. Infondo questo discorso va bene anche alla maggior parte delle band, perché così hanno un modo chiaro e certo di poter fare i concerti. Quelli che hanno soldi. Oggi la differenza la fanno i soldi: se hai i soldi diventi famoso in un modo o nell’altro, se non hai i soldi devi avere qualche divinità che tiene a te, e sembra che quelle del metal non siano più così tanto potenti, purtroppo. Di certo meno potenti dei soldi…